venerdì 6 dicembre 2013

Manipolare la politica. Sistemi elettorali vecchi e nuovi di Mauro Stampacchia


La sentenza della Corte Costituzionale, che dichiara la incostituzionalità del "Porcellum" in alcune sue parti essenziali, segna uno spartiacque. E, mentre urge la riforma della legge elettorale, spinge a riflettere sui sistemi elettorali negli ultimi due decenni, guardando sia alle intenzioni che animavano i cd. "riformatori", che ai risultati conseguiti. Se ne possono trarre, tra l'altro, oltre a considerazioni interessanti per la storia politica italiana recente, anche utili considerazioni per il futuro.
L'arco, ormai concluso, di quello che chiameremo, ma solo per convenzione, “riformismo” elettorale, ci presenta risultati estremamente discutibili, non solo perchè siamo approdati al sistema peggiore di tutti, il Porcellum, ma anche per il divario tra intenzioni proclamate e risultati della riforma elettorale. Il risultato che si è ottenuto, e che probabilmente stava anche negli intenti di alcuni, è un sistema politico manipolato e che continua a prestarsi ad esserlo. Gli esempi che abbiamo di fronte dimostrano ad abundantiam che in qualche caso l'obiettivo della riforma elettorale, e certo il risultato, è stato una profonda manipolazione della rappresentanza, e con essa della politica, e forse anche la volontà di continuare su quella strada.
Torniamo indietro al fatidico 1993 quando a furor di referendum viene accantonata la legge proporzionale in vigore dal dopoguerra. In quella occasione la riforma elettorale veniva presentata dai propagandistici del sì al referendum come una imperdibile occasione per sbloccare il sistema bloccato di quella che veniva chiamata la Prima repubblica, nella quale un ceto inamovibile della politica  generava corruzione, rapporti distorti con l'economia, e in complesso un sistema privo di governabilità autentica, con governi destinati a durare molto poco, e certamente molto meno di quanto sarebbe stato necessario per introdurre elementi di riforma all'altezza delle esigenze del momento. A favore dell'abrogazione referendaria giocarono diversi argomentazioni. Quella “decisionista”, con sapore conservatore, che indicava nella debolezza dei governi il maggior problema, poteva andare a braccetto con chi vagheggiava un sistema a due poli perchè solo così si sarebbe potuto trovare la via dell'alternativa/alternanza al regime. Forte veniva sentita l'esigenza di un cambiamento di classe politica e di indirizzo politico, e questa esigenza fu quella che offrì una piattaforma aurea ai referendari. Il sistema maggioritario-uninominale, l’opposto del proporzionale, era inoltre accreditato, con molta e strabordante pubblicistica, di benefici quali la riduzione del numero dei partiti e della frammentazione del sistema, oppure anche della convergenza al centro del sistema stesso: secondo questa ultima argomentazione in ognuno dei due schieramenti avrebbero prevalso, se mi si passa il linguaggio calcistico, le mezze ali, in competizione per l'elettorato di centro. Gran parte di queste previsioni, mutuate quasi con il copia-incolla da schemi prevalentemente teorici, si sono rivelate, come vedremo, del tutto infondate.
Il punto che accomunava argomentazioni diverse era però estremamente pericoloso, e cioè che solo una modifica procedurale poteva garantire il cambiamento. Non contenuti programmatici, non istanze valoriali, non nuovi obiettivi politici, ma solo una modifica nel modo di funzionamento del sistema avrebbe garantito, quasi in automatico, il passaggio ad un altro sistema politico. Sarebbe stato come se gli ingegneri (la metafora era assai in voga allora e si parlava infatti di "ingegneria istituzionale") aggiustassero un motore di automobile e questa riparazione garantisse di per sè che il motore andasse, di forza propria, nella direzione voluta. In fondo si trattava, veniva detto, di una manipolazione buona, una manipolazione a fin di bene. Ma comunque di una manipolazione. Al posto di una rivoluzione democratica, che è il nome che si da ad un processo che accantona un regime e una classe politica e lo sostituisce con uno nuovo, più democratico e portatore di un ricambio radicale del ceto politico, si preferì dunque la manipolazione elettorale.

Non si scelse però la via radicale del "maggioritario secco", il cd. "sistema Westminster", in vigore in Inghilterra (e pochi altri paesi), secondo il quale l'elettorato si divide in collegi piccoli, ciascuno dei quali esprime un solo rappresentante, quello che ha più voti (anche se non raggiunge la maggioranza del 50%) e la maggioranza si crea nella Camera, ed è sempre ottenuta, anche se spesso molto più forte del numero dei voti (in un caso storico la maggioranza dei deputati fu prodotta da una minoranza dei voti). Si scelse un sistema misto nel quale il 75% dei seggi sarebbe stato attribuito dai collegi uninominali e il 25% invece sarebbe stato attributo da liste proporzionali che avessero superato la soglia del quattro per cento, liste però bloccate che non consentivano quindi all'elettore di scegliere tra i candidati proposti. Dal suo proponente, questa legge venne chiamata Mattarella, ma un politologo di primo piano, Giovanni Sartori, gli appioppò il soprannome di Mattarellum per sottolineare quelle che per lui erano le gravi falle di quel nuovo sistema.
E in effetti il Mattarellum non era esente da critiche. Si poteva registrare innanzitutto una curiosa inversione dei fatti (alla quale ci saremmo dovuti tristemente abituare sempre di più anche in altri campi); quel sistema era presentato come capace di "ridare lo scettro al Principe". cioè all'elettore un potere decisionale e di scelta anche dei candidati, ma in realtà riduceva, e non aumentava, questa possibilità. Il sistema dei collegi che si era creato non era quello ottocentesco nel quale il partito era debole, anzi proprio non esisteva e al massimo si esprimevano, collegio per collegio, dei comitati elettorali non permanenti. Ma quello nel quale una ferrea classe politica, articolata in partiti nazionali, poteva garantire un controllo centralizzato dei collegi, nei quali l'elettore poteva scegliere tra pochi candidati, due o al massimo tre. Scelta possibile da parte dell'elettore: zero. Se nel suo collegio l'elettore moderato di centrodestra si trovava di fronte ad un candidato come (i primi che mi vengono a mente) Previti e Dell'Utri, o vota quelli o sposta il voto su chi, di centrosinistra, non lo rappresenta, o si astiene. Venne detto autorevolmente che con quel sistema ogni polo avrebbe potuto, se lo voleva, eleggere un paracarro. Nel residuo 25% proporzionale, nessuna preferenza. (Ancora una ricostruzione storiografica completa, di tutte queste dinamiche e delle motivazioni di ogni singola scelta e dettaglio, manca).
Le previsioni non si verificarono. Non quella di favorire i moderati, perchè la nuova alleanza tra Forza Italia di Berlusconi e la Alleanza Nazionale di Fini, non certo moderata, dominò uno dei due poli e vinse le elezioni del 1994. Nemmeno la previsione della riduzione dei partiti si verificò: anzi le piccole formazioni ebbero buon gioco a negoziare il proprio appoggio all'uno e all'altro polo, alzando la posta, nei collegi, e quindi crebbero di numero (e di volatilità); in qualche caso la forza minore, anche esterna ad un polo, contrattò una sua desistenza (cioè il non candidarsi in gran parte dei collegi) in cambio della candidatura da sola in qualche collegio dal quale si asteneva dal candidarsi un esponente del polo. Quello che era successo, se si dovesse riassumere in una formula, era che un paese che esprimeva tra quattro e sei grandi correnti di orientamento politico faticava moltissimo ad infilarsi dentro un sistema bipolare che forzosamente portava a unioni non sempre ben riuscite. Con tutto questo, alla lunga, si determinava una tendenza alla inevitabile bipolarizzazione della politica, che peraltro non riusciva a rendere più stabili i due poli. Nel centrodestra le scissioni di Casini prima e di Fini dopo, con il rafforzarsi della leadership individuale di Berlusconi; nel centrosinistra invece, una "fusione a freddo" tra Margherita e Ds, fino a quel momento cordiali alleati, ha generato un Partito democratico molto più conflittuale, senza che si consolidasse a sinistra, anche causa la legge elettorale, una forza stabile.
La falla più grande, che rimaneva nello sfondo, era la possibile grave contraddizione con la Costituzione, in almeno due punti. La possibilità che si generasse una maggioranza in Parlamento, "drogata" dal maggioritario, che superasse la soglia dei due terzi necessaria a modificare la Costituzione. Quest'ultima prevede a suo presidio la modifica solo ad opera di una maggioranza ampia e qualificata, i due terzi, ma eletti con la proporzionale, quindi pari a due terzi degli elettori. Col maggioritario in particolari circostanze si può arrivare a due terzi dei seggi anche con meno del 50% degli elettori. La seconda contraddizione con la Costituzione riguardava invece il fatto che, come affermato a gran voce dai sostenitori del maggioritario, la maggioranza uscita dalle urne avrebbe indicato il capo del governo in modo certo, univoco, quasi automatico. Ma la Costituzione italiana, che è e rimane una Costituzione parlamentare, dice altro: l'incarico di capo di governo viene conferito dal Presidente della Repubblica ed è efficace solo dopo la fiducia delle Camere. Il Presidente della Repubblica ha una funzione di mediazione e di governo della procedura che contrasta con qualsiasi automatismo. Questo aspetto del Mattarellum finisce quindi per aprire la strada ad un sistema plebiscitario, cesarista, guidato dall'uomo forte che domina le elezioni: il maggioritario ha coinciso con l'ascesa di Berlusconi e lo ha in parte favorita, anche avendogli consentito di calamitare a sé l'opposizione alla sinistra. Questo fatto è ora posto in ombra dal fatto che Berlusconi sostituì il Mattarellum nel 2005 con una nuova legge elettorale, il Porcellum (ma dopo la sentenza della Corte costituzionale ripropone non a caso il Mattarellum).
Per capire invece il (defunto) Porcellum in tutte le sue sfumature e tetri dettagli, che spiegano anche il soprannome subito affibbiato, occorre ricordare che la legge elettorale, che è la vera matrice del sistema politico, non è una legge costituzionale modificabile solo con maggioranze qualificate, ma è una legge ordinaria, che può essere modificata o manomessa dalla maggioranza al governo. Insomma, malgrado le ripetute dichiarazioni di voler fare una legge condivisa da tutti, è possibile che la maggioranza di governo si faccia, volta a volta, una legge su misura, uan specie di abito sartoriale. Il centrodestra era in grave difficoltà di consensi, si prevedeva una vittoria del centrosinistra, che il Mattarellum avrebbe amplificato. Per tutta risposta il centrodestra si approvò una legge, su proposta di Calderoli, che mescolava assieme il peggio del proporzionale ma manteneva uno schema maggioritario. Nessuna possibilità di scelta tra candidati, sia alla Camera che al Senato, e questo in stretta continuità con il Mattarellum. Nella Camera un vistoso premio di maggioranza alla coalizione che prendeva più voti, o anche solo un voto di più della seconda, indipendentemente dal superamento del cinquanta per cento dei voti, o di qualsiasi percentuale. Al Senato, e qui quella che il suo stesso autore definì la "porcata" che dette il nome al sistema, invece il premio di maggioranza veniva dato regione per regione con la possibilità che si annullasse a vicenda, fino al punto di dare maggioranze fragili nel Senato o addirittura maggioranze diverse tra le due Camere. Ed è questo che puntualmente avvenne nelle elezioni del 2006, quando la vittoria risicatissima del centrosinistra di Prodi incalzato dalla rimonta di Berlusconi strappò una maggioranza fragilissima al Senato, portando ad una legislatura presto interrotta e alla nuova vittoria del centrodestra nel 2008. Le ultime elezioni del 2013 han puntualmente portato ad un risultato di stallo, da cui sono uscite le "larghe intese".
La disinvoltura del centrodestra, il suo laico cinismo di fronte al potere, si esprime benissimo nel Porcellum, il quale è ritagliato, non occorre dimenticarlo, sul precedente della legge regionale toscana, che ora fortunatamente (ma tardivamente) sembra essere in via di riforma. La sua caratteristica deformatrice dei meccanismi della politica reale salta agli occhi quando si vede come, impedendo all'elettore di scegliere il suo eletto si rafforza grandemente il meccanismo che rende deputati e senatori dipendenti da chi li ha "nominati". Questo serviva a Berlusconi per frenare la fuga dei suoi e rendere chiaro che la sorte loro dipendeva da lui stesso, per la verità in virtù anche di altri fattori, quali la disponibilità dei media e di vaste ricchezze. Ma la cosa, per la verità, non dispiaceva nemmeno all'altro schieramento, almeno ad una sua parte.
Il Porcellum, proseguendo sulla strada della precedente legge elettorale, ha portato il meccanismo di manipolazione della politica e delle sue dinamiche ad un livello mai raggiunto. Ha rafforzato i meccanismi di casta presenti nel ceto politico e ha ulteriormente allontanato politica e società. E' stato l'esperimento più manipolativo della storia elettorale italiana, se si esclude naturalmente le politiche elettorali del regime fascista dalla legge Acerbo in poi. Ed è significativo che sia stato un intervento della Corte Costituzionale e non una autoriforma della attuale politica ad averlo definitivamente accantonato. Del resto la attuale politica è malata anche perchè frutto del Porcellum, e, prima ancora, del Mattarellum. Per il futuro è possibile, ed anche necessario, lavorare per consolidare garanzie e vincoli di tipo costituzionale in materia elettorale, per limitare l'arbitrio e porre limiti alla manipolazione. La costituzione pone, in vari articoli, alcuni principi elettorali ma nulla dice direttamente della legge elettorale, anche,  se come si è visto, si può fondare un giudizio di costituzionalità su una legge elettorale anche confrontandola con l'intero impianto costituzionale. E' però possibile e utile, in sede di riforma costituzionale, introdurre norme che dettino ulteriori principi, oltre quelli previsti dall'art. 48, che ogni legge elettorale deve rispettare, primo tra tutti il diritto dell'elettore a scegliere tra i candidati esprimendo preferenza, un criterio di tutela delle minoranze, o anche dettando criteri di massima per la legge elettorale, sul modello di quanto si afferma, per esempio, circa il "sistema tributario" che, secondo l'articolo 53, deve essere "informato a criteri di progressività". Questo rafforzerebbe un sindacato di costituzionalità e quindi la possibilità di intervento/correzione della Corte Costituzionale in tema di legge elettorale.
Si intuiscono le argomentazioni contrarie: la politica non deve subire intromissioni, deve essere lasciata libera di formare i suoi equilibri, la presenza della Corte Costituzionale rompe la divisione dei poteri tra legislativo e giudiziario. Purtroppo la realtà ci fornisce un quadro diverso, quello di una politica che non ha saputo, nè voluto, arrivare ad una autoriforma elettorale. Molto spesso il modo di vedere un sistema elettorale da parte dei partiti risponde alla domanda: quanto vantaggio può trarre il mio partito da questa legge? e non piuttosto: quanto può il sistema politico, la democrazia, la vita pubblica trarne? In una formula, qual'è la "responsiveness" di una certa legge, la capacità cioè del sistema elettorale che ne scaturisce, di farsi espressione fattiva delle istanze democratiche e di saper rispondere a queste istanze.
Benvenuta quindi la costituzionalizzazione della legge elettorale.
Bisogna però pensare al nuovo sistema elettorale, perché l'intervento della Corte Costituzionale può mettere dei paletti, ma non proporre una nuova legge elettorale che corrisponda alle esigenze del rinnovamento democratico. Possiamo infatti, dopo tutto questo, come diceva una nota pubblicità, "continuare a sbagliare candeggio"?
(segue)  

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